DAL MITO APPLE AL PARADOSSO IRLANDESE

Una sede Apple

I numeri richiamano l’attenzione solo se sono grandi e le questioni fiscali annoiano per la loro complessità (accade lo stesso con le leggi in generale). Così che la massa dei lettori sobbalza sulla sedia all’apprendere che la Apple deve all’Irlanda imposte non pagate per 13mila milioni di euro (più gli interessi maturati negli ultimi dieci anni). Ma poi passa oltre. Dimentica di aver acquistato un personal computer della Mela o un iPhone (o entrambi) con la stessa ansia con cui un tifoso si abbona alla squadra di calcio favorita, e divorato la biografia del certamente geniale Steve Jobs come se fosse quella di San Francesco d’Assisi. La californiana società di Cupertino ha investito miliardi per costruirsi un’immagine vagamente filantropica, capace di distinguerla dalle altre.
La contraddizione più stridente, tuttavia, non è quella della prima società del mondo nelle quotazioni di Borsa che inneggia con toni sociali alla libertà di mercato e poi cerca di non pagare imposte, riuscendoci. Un clamore ben maggiore lo suscita il creditore che respinge il diritto al credito. Il governo di Dublino ricorre infatti contro la decisione della Commissione europea che le fa obbligo di riscuotere i 13mila miliardi, equivalenti niente meno che al 6 per cento del suo PIL: una cifra colossale! A spiegare l’apparente assurdità, è il fatto che l’economia irlandese prospera sulla concorrenza sleale praticata nei confronti degli altri paesi sul terreno fiscale. Ecco un altro falso arcano della fragilità dell’Unione Europea, che ne alimenta i populismi.

Apple Tasse

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Alle grandi compagnie multinazionali che vanno a risiedervi fiscalmente, l’Irlanda offre di pagare meno del 50 per cento delle imposte che pagherebbero in Germania, in Francia o in Italia: il 12,5 per cento. Ma Apple non ha pagato neppure questo. Nel 2003, al termine di una trattativa con il fisco irlandese, ottenne maggiori sconti e pagò l’uno per cento. In cambio portò a Dublino non solo il fatturato europeo, bensì anche quelli ottenuti in Africa, nell’Oriente Medio e in India. Ma non è ancora tutto: negli anni successivi e fino al 2014 incluso, le imposte scesero ulteriormente toccando un minimo dello 0,005. Una percentuale davvero irrisoria. Che in assoluto si traduce nondimeno in una cifra importante che spiega l’apparente autolesionismo del fisco di Dublino.
Al termine di 3 anni d’inchiesta, la Commissione Europea alla Concorrenza diretta dall’energica Margrethe Vestager, ex vice-primo ministro danese, ha dichiarato un simile trattamento fiscale “aiuti illegali di stato”. Stabilendo le relative sanzioni. Già alla vigilia dell’apertura delle indagini, le offerte informali di transazione della Apple, vennero fatte cadere in quanto tardive oltre che insufficienti. Né hanno poi trovato maggiore ascolto le sempre maggiori e infine aperte pressioni del presidente Obama, che in questa circostanza ha rinunciato all’eleganza del suo consueto tratto politico. Adesso comincia un’ultima battaglia legale, con Dublino cavallo di Troia dell’Unione. Il caso vuole però che coincida con la fine della presidenza Obama e il più che probabile naufragio dello storico accordo commerciale Europa-USA. L’autorità di Bruxelles potrebbe risultarne favorita.

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